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Origine della lira
L’etimo
lira ha un’origine duplice e con significati distinti. Dal greco
antico la lýra è uno strumento musicale a corde, con una cassa
armonica, a/di guscio di testuggine, e due bracci fissati ad essa e
collegati da una traversa. Dal latino la libra, bilancia, è il nome
di un’unità monetaria variabile a seconda delle epoche e dei paesi
che l’hanno adottata: lira italiana, turca, egiziana e sterlina
inglese.
La
lira, in francese livre,
era stata introdotta da Carlo Magno nel IX sec. e il sistema
monetario carolingio si basava sulla libbra ponderale d’argento.
Essa rimase in uso come moneta di conto per tutto il Medioevo e,
solo a partire dalla seconda metà del XV sec., divenne una moneta
vera e propria, ma con valori differenti secondo l’epoca e il luogo.
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Nel
1472 fu coniata la lira veneta, nel 1474 quella milanese, nel 1498
quella genovese, nel 1539 quella toscana, nel 1561 quella di Savoia,
nel 1611 quella di Modena, nel 1631 quella ducale di Vittorio Amedeo
I duca di Savoia e nel 1655 la lira bolognese.
Solo
nel 1806, nell’Italia napoleonica, fu emessa per la prima volta la
lira italiana, con decreto di Napoleone. Era divisa in centesimi,
secondo le regole del sistema metrico decimale introdotto in
Francia, a seguito della rivoluzione del 1789.
Finita l’epoca napoleonica, con la Restaurazione seguita al
congresso di Vienna, si ritornò di nuovo alle lire dei vari stati
italiani e le monete erano metalliche.
La
carta moneta aveva fatto la sua comparsa in Italia, nel 1746, con il
primo biglietto in lire stampato dalle Regie Finanze di Torino. Essa
aveva tagli differenti, che andavano dalle 100 alle 3.000 lire, e
l’iniziativa del Regno di Sardegna fu imitata da altri stati
italiani.
A
causa delle esigenze di copertura delle spese militari, purtroppo,
le Regie Finanze avevano ecceduto emettendo carta moneta in
continuazione e il tempo n’aveva eroso il valore. Ciò aveva
provocato la sfiducia dei cittadini, perciò, con legge 27 luglio
1800, se ne decretava la fine mettendo fuori corso tutti i biglietti
in circolazione.
I
sistemi monetari dei vari stati italiani erano differenti tra loro e
questo complicava molto gli interscambi commerciali.
Storia della lira italiana
Il
Regio Decreto del 17 luglio 1861 dava corso legale alla nuova lira
del Piemonte che, con la denominazione di lira italiana, diveniva la
moneta dell’unificazione del regno d’Italia.
Nel
1862, con la legge Pepoli, dal nome del deputato proponente, si dava
il via all’emissione di 14 monete: cinque in oro, cinque in argento
e quattro in bronzo.
In
tal modo s’istituiva un nuovo sistema monetario: quello di Vittorio
Emanuele II re d’Italia, che sostituiva i vari sistemi monetari
locali preesistenti, nell’ambito dei quali avevano circolato 282
tipi di monete metalliche differenti, di cui 133 in oro, 64 in
argento, 34 in eroso (lega d’argento e rame, dal latino aerosum,
ricco di rame) e 51 in bronzo o in rame.
Le
monete metalliche di Vittorio Emanuele II (1826-1878) riportano sul
dritto il suo profilo di re e sul rovescio lo stemma sabaudo, oppure
il solo valore facciale della moneta.
Anche
le monete metalliche del suo successore, re Umberto I (1844-1900),
hanno sul dritto la testa del monarca e sul rovescio lo stemma
nazionale con il valore del pezzo.
Col
sistema monetario del terzo re d’Italia, Vittorio Emanuele III
(1869-1947), le monete metalliche riportano sul dritto il suo
profilo di re o imperatore e sul rovescio immagini allegoriche che,
durante il regime fascista, sono accompagnate dal fascio littorio
col valore del pezzo.
Umberto II (1904-1893), detto “il Re di maggio”, perché fu re
d’Italia dal 9 maggio al 12 giugno 1946, non poté avviare un proprio
sistema monetario. Andò in esilio il 13 giugno 1946, perché l’esito
del referendum istituzionale aveva sancito la vittoria della
repubblica sulla monarchia.
La
carta moneta, di grosso taglio, fu introdotta come moneta
convertibile, nel senso che il portatore di banconote poteva
richiederne la conversione in metallo prezioso presso l’istituto
d’emissione, e il suo valore era pari a 4,5 g. d’argento e a
0,29032225 g. d’oro. Essa aveva una circolazione limitata ed era
emessa dagli istituti bancari ereditati dal regno d’Italia, quali la
Banca Nazionale degli Stati Sardi, la Banca Nazionale Toscana, la
Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio, il Banco
di Napoli e il Banco di Sicilia.
Dopo
l’unificazione politica dell’Italia, la Banca Nazionale degli Stati
Sardi, trasformata in Banca Nazionale nel Regno d’Italia, emetteva
le seguenti monete: biglietti di banca al portatore da 25, 50, 100,
500 e 1.000 lire, tutte di misure ragguardevoli; monete metalliche
in oro da 5, 10, 20, 50 e 100 lire; monete metalliche in argento da
50 centesimi e da 1, 2 e 5 lire; monete metalliche in bronzo da 1,
2, 5 e 10 centesimi.
Altre
due banche, lo Stabilimento Mercantile del Veneto e la Banca dello
Stato Pontificio passarono al regno d’Italia, rispettivamente nel
1867 e nel 1870, assieme ai territori di cui facevano parte.
La
Banca dello Stato Pontificio, nata nel 1850 dalla trasformazione di
una preesistente banca romana sorta nel 1834, col passaggio al regno
d’Italia divenne Banca Romana e continuò ad operare come istituto
d’emissione. E fu proprio questa sua attività a portarla al centro
di un grave scandalo monetario e finanziario in cui, come poté
accertare un’inchiesta parlamentare, erano coinvolti alti funzionari
ed esponenti politici di spicco, tra i quali anche il presidente del
consiglio, il liberale Giovanni Giolitti, costretto a rassegnare le
dimissioni.
Nel
1893 la Banca Romana fu liquidata e accorpata, assieme alla Banca
Nazionale Toscana e alla Banca Toscana di Credito, dalla Banca
Nazionale nel Regno d’Italia che si trasformò in Banca d’Italia,
istituita con la legge n. 499 del 10 agosto 1893.
Sino
al 1926 sarebbero stati tre gli istituti d’emissione: Banca
d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia. Poi, con la riforma
bancaria, la Banca d’Italia sarebbe diventato l’unico istituto
d’emissione italiano.
Nel
1866 la carta moneta, da convertibile fu trasformata in moneta
inconvertibile, vale a dire a corso forzoso, la cui circolazione era
imposta per legge e aveva potere liberatorio per i debitori, in
quanto i creditori non potevano rifiutarla come mezzo di pagamento.
Ben
presto, però, la moneta cartacea cominciò ad incontrare difficoltà
sul mercato, perché la gente preferiva le monete metalliche e
tendeva a tesaurizzarle, con la conseguente loro scomparsa dalla
circolazione. Allora operatori commerciali e banche, per sopperire
alla carenza di moneta spicciola, cominciarono ad emettere biglietti
di piccolo taglio, e questo, pur ritenuto un abuso da parte del
governo, durò sino al 1874, anno in cui fu concessa l’emissione di
biglietti inconvertibili a tutti gli istituti d’emissione. In questo
modo, i biglietti di banca ricevevano un impulso alla loro
diffusione. Tuttavia, fino alla seconda guerra mondiale, la carta
moneta avrebbe conservato l’ancoraggio all’oro e, almeno sul piano
legale, anche la convertibilità in oro, che sarebbe stata abolita
nel dopoguerra.
Nel
1895 fu emanato il primo regolamento per i biglietti di banca che
fissava quanto segue: modalità di fabbricazione, tipo di carta,
custodia e controllo per il ritiro e successivo incenerimento dei
biglietti logori o danneggiati.
La
carta bianca filigranata doveva essere fornita esclusivamente da
cartiere italiane e questo fatto sollevò le critiche dei tecnici
addetti alla fabbricazione delle banconote, perché i fogli, pur
stampati nell’identica maniera, risultavano sempre differenti tra
loro.
I
nuovi biglietti della Banca d’Italia, ad essa intestati e prodotti
sempre con matrice, furono emessi a partire dal 1896 con i disegni
preparatori del noto orafo senese Rinaldo Barbetti che, per la sua
collaborazione, ottenne il compenso di 2.800 lire.
Una
volta messe in circolazione, le banconote furono molto criticate per
la banalità del disegno e le carenze nella tecnica esecutiva, che ne
avrebbero facilitato la falsificazione. Eppure esse sarebbero state
stampate anche nei decenni successivi, rimanendo a lungo in
circolazione.
Nel
1910, Giovanni Capranesi, presidente dell’Accademia di S. Luca di
Roma, fu incaricato di eseguire i bozzetti per le nuove banconote da
50, 100, 500 e 1.000 lire, ma si dovette arrivare al 1915 perché
fossero prodotti i biglietti da 50 lire di nuova concezione:
produzione senza matrice e con un peso della banconota, pari alla
metà di quello dei biglietti dello stesso tipo prodotti fino allora.
Ma la produzione era lenta e irta di difficoltà, a causa della
preparazione della carta e dei tempi lunghi di stampa su recto e su
tergo. La banconota, prodotta fino al 1920, sarebbe andata fuori
corso nel 1950.
Il
biglietto da 500 lire fu stampato dal 1919 al 1943, e tra il 1930 e
il 1931 si completò il progetto Capranesi con la realizzazione dei
biglietti da 100 e da 1.000 lire che, stampati fino al 1943,
sarebbero andati fuori corso rispettivamente nel 1950 e nel 1953.
Già
all’inizio del Novecento, la Banca d’Italia aveva deciso di
organizzare in proprio la produzione della carta filigranata. La sua
cartiera fu pronta solo nel 1914, anno in cui cominciò a fabbricare
carta in filigrana, anche molto sottile, adoperando la fibra di
ramié, ottenuta da una canapa asiatica opaca e molto resistente. In
ogni modo essa dovette continuare ad approvvigionarsi dallo
stabilimento Miliani di Fabriano, perché la carta prodotta in
proprio era insufficiente, anche a causa dei troppi difetti che si
riscontravano man mano nei fogli stampati.
Nel
1928 era creato, come ente di diritto pubblico con responsabilità
giuridica, l’Istituto Poligrafico dello Stato. Sottoposto al
controllo da parte del ministero del tesoro, che alla fine del
Novecento sarebbe confluito nel superministero dell’economia, aveva
il compito di provvedere all’intero fabbisogno grafico e di stampa
della pubblica amministrazione: stampa di biglietti di banca,
francobolli e marche da bollo, carta bollata e moduli; pubblicazione
della Gazzetta Ufficiale e della Raccolta ufficiale delle leggi e
dei decreti della Repubblica; stampa di libri d’arte, testi antichi
rari ed enciclopedie.
Durante la seconda guerra mondiale, entrò in funzione il nuovo
stabilimento costruito appositamente a L’Aquila per la stampa dei
biglietti nei tagli da 50, 100, 500 e 1.000 lire. In esso si
producevano anche le banconote che potevano circolare solo
nell’Africa Orientale Italiana e quelle per l’Albania, la cui lira
aveva lo stesso valore intrinseco di quella italiana.
Le
banconote prodotte a L’Aquila dal 22 maggio 1942 riportano, sul
margine inferiore destro del recto, la scritta – Officine della
Banca d’Italia – L’Aquila, invece di Roma.
L’8
dicembre 1943, lo stabilimento di L’Aquila fu centrato dalle bombe
dell’aviazione americana e, oltre ai gravi danni subiti, vi furono
numerosi morti. Avrebbe continuato a produrre con difficoltà fino
all’11 giugno 1944, quando le macchine, ormai ferme da giorni per
mancanza d’energia elettrica, furono minate dai tedeschi in ritirata
verso il nord.
A
Roma, negli anni 1942-43, erano ancora prodotti i biglietti di
vecchio tipo disegnati dal Barbetti, perché il parco macchine era
antiquato.
Nell’ottobre 1943 l’Istituto Poligrafico dello Stato sospese la sua
attività, e l’avrebbe ripresa dopo la fine della guerra, perché le
sue macchine furono requisite dai tedeschi e trasferite all’Istituto
Geografico Militare di Firenze.
Il
Governo della Repubblica Sociale Italiana di Salò iniziò a
trasferire al Nord parte degli uffici amministrativi della Banca
d’Italia, mentre le riserve auree della Banca prendevano la via di
Fortezza (BZ) con destinazione Berlino. Di queste ultime, solo una
parte, quella ritrovata dagli Alleati, sarebbe stata riportata a
Roma e riconsegnata alla Banca dopo la guerra.
Tra
il 1943 e il 1945, la produzione monetaria continuò nell’Italia
settentrionale negli stabilimenti dell’Istituto Italiano Arti
Grafiche di Bergamo, delle Officine Alfieri e Lacroix di Milano e
dell’Istituto Geografico De Agostini di Novara.
Nel
1943, nell’Italia del sud, dopo lo sbarco degli Alleati, fu messa in
circolazione la moneta d’occupazione americana, costituita dalle
Am-lire. Essa, emessa nello stesso valore della moneta italiana,
contribuì ad alimentare una consistente inflazione. Recava la
scritta Allied Military Currency ed era nei tagli da 1, 2, 5, 10,
50, 100, 500 e 1.000 lire. Sarebbe cessata dal corso legale nel
1950.
A
Roma, nel 1945, la cartiera della Banca d’Italia riprendeva la sua
attività e la produzione monetaria era realizzata presso lo
Stabilimento Staderini e l’Istituto Poligrafico dello Stato.
Nel
dopoguerra i nuovi biglietti della Banca d’Italia da 50, 100, 500 e
1.000 lire erano fissati in conformità ad un decreto del 1944 che
prevedeva dimensioni identiche, carta bianca satinata filigranata in
pasta e una testina turrita dell’Italia sul recto dell’ovale di
sinistra.
L’ultima lira del Regno, la lira “Impero”, fu coniata tra il 1939 e
il 1943, la prima lira della Repubblica, la lira “Arancia”, fu
emessa tra il 1946 e il 1950.
A
causa della forte perdita di potere d’acquisto della lira, furono
abolite le monete metalliche in centesimi e si procedette ad un
incremento del valore dei tagli nella serie delle banconote. Si
decise di produrre le 5.000 e le 10.000 lire, che entravano in
circolazione nel 1951. Finalmente cominciavano a circolare anche i
biglietti di banca del sistema monetario repubblicano.
Nel
1956 entravano in circolazione le monete metalliche da 50 e 100
lire. Nel 1957 erano coniate le 20 lire in bronzital e nel 1958 le
500 lire d’argento in milioni d’esemplari. Questa moneta, servita
per celebrare nel 1961 l’Unità d’Italia e nel 1965 il 7° centenario
della nascita di Dante, cessò la circolazione nel 1970.
Tra
il 1938 e il 1964 il valore della lira si era ridotto di cento volte
e, tra il 1962 e il 1964, la Banca d’Italia cominciò a produrre
banconote, più piccole di dimensioni, di nuova concezione e simili a
quelle degli altri Paesi del MEC.
Il
MEC, il Mercato comune europeo, come correntemente si chiamava la
CEE, Comunità economica europea, nacque dall’accordo di Roma del 25
marzo 1957, quale consequenziale evoluzione della CECA, Comunità
europea del carbone e dell’acciaio, creata, con il trattato di
Parigi dell’aprile 1951, dai sei paesi fondatori: Francia,
Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Olanda e Lussenburgo.
La
CEE sarebbe diventata Unione europea, col trattato di Maastricht del
1992.
Ma le
motivazioni profonde dell’UE si fanno risalire alla seconda guerra
mondiale e alle immani tragedie che essa causò, e alla volontà di
far sì che non si verificassero più in futuro.
Il
primo a proporre l’integrazione europea fu il ministro degli Affari
esteri francesi Robert Schuman, il 9 maggio 1950, e tale data è
ricordata ogni anno come la Festa dell’Europa.
Il
progetto delle banconote di nuova concezione era di Florenzo Masino
Bessi e tendeva a celebrare la genialità italiana: l’effige di
Michelangelo per le 10.000 lire e quella di Verdi per le 1.000 lire
del 1962, quella di Colombo per le 5.000 lire del 1964.
Del
1967 sono le 50.000 lire con l’effige di Leonardo e le 100.000 lire
con quella di Manzoni.
Nel
1970 erano utilizzate l’immagine di Galilei per la banconota da
2.000 lire e quella di Tiziano per la 20.000 lire.
Negli
anni Sessanta, per la lotta contro i falsari, diventati sempre più
abili e intraprendenti, si escogitavano nuovi sistemi di difesa
contro la contraffazione, come il filo di sicurezza metallizzato
inserito nella carta filigranata della banconota da 1.000 lire.
Anche
negli anni Settanta la Banca d’Italia proseguiva una lotta serrata
ai falsari e, sul recto delle banconote, i personaggi famosi erano
sostituiti con particolari d’opere d’arte o immagini inventate dai
preparatori dei bozzetti. Ciò per costringere i cittadini a guardare
con attenzione le banconote che gli passavano per le mani.
Negli
anni Ottanta si dovette risolvere l’esigenza tecnologica del
riconoscimento e controllo automatico delle banconote.
La
carta filigranata, contenente sempre il filo di sicurezza verticale,
fu colorata lievemente con fibrille luminescenti, e la nuova serie
di banconote prodotta presenta sul recto le seguenti celebrità
nazionali: Marco Polo sulle 1.000 lire, Bellini sulle 5.000 lire,
Volta sulle 10.000 lire, Bernini sulle 50.000 lire, Caravaggio sulle
100.000 lire.
Gli
anni Novanta vedevano il perfezionamento dei sistemi di sicurezza
esistenti e l’introduzione della microscrittura, del filo di
sicurezza, con scritta leggibile in controluce, e dell’inchiostro a
doppio effetto di colore.
Sul
recto della banconota da 1.000 lire è effigiata la Montessori e su
quella da 2.000 lire Guglielmo Marconi.
L’ultima banconota creata dalla Banca d’Italia è quella col valore
nominale più alto: la 500.000 lire con l’effige di Raffaello, nel
settembre del 1997. Una chiusura alla grande – con il botto finale,
verrebbe da dire –, per una moneta, la lira italiana, ossia un pezzo
fondamentale di storia patria, che nel bene o nel male ha
accompagnato e scandito momenti fausti e momenti infausti vissuti
dalla nostra nazione.
Di lì
a poco più di quattro anni, tutte le monete in lire sarebbero state
ritirate dalla circolazione per essere distrutte, come le monete
degli altri Stati dell’UE, fatta eccezione per quelle di Gran
Bretagna e Danimarca, che avevano scelto di non aderire al sistema
euro, nonostante che tra i propositi e le speranze poteva esserci
quello di competere, a livello mondiale, con lo strapotere del
dollaro USA.
Abolizione della lira e conseguenze
dell’introduzione dell’euro
La
lira italiana, moneta del vecchio conio, è stata la nostra moneta
ufficiale sino al 31 dicembre 2001, dopo di che è entrato in vigore
l’euro, sotto forma di banconote e monete metalliche, l’attuale
moneta legale di una buona parte dei 25 Paesi aderenti all’UE,
l’Unione europea, che ha introdotto anche i centesimi.
Il
valore di un euro è pari a lire 1936,27.
L’euro non ha reso felici gli europei. E ciò non dipende da quella
sorta di spada di Damocle, che è il rischio di sforamento dei
parametri di Maastricht, che porta, da parte della Commissione
europea di Bruxelles, all’apertura della procedura per infrazione
nei confronti di quegli Stati che non rispettano il patto.
Questa nuova moneta è fonte d’insicurezza, perché rispetto a prima
ci si sente tutti più poveri. E la cosa inquieta non poco la gente.
E poi
tra le Istituzioni europee e i cittadini d’Europa esiste una
lontananza, non solo geografica. Insomma i popoli dell’Unione
avvertono che i loro problemi reali, quelli d’ogni giorno, restano
fuori delle stanze del potere di Bruxelles, anche a causa di una non
adeguata democratizzazione delle strutture politico-burocratiche che
si è andati istituendo in questi anni.
Le
vittorie del no, il 29 maggio in Francia e l’1 giugno 2005 in
Olanda, alla votazione per i referendum sulla costituzione europea,
hanno infranto il tabù dell’ideale europeista e complicano non poco
le cose. Sono una battuta d’arresto nel cammino dell’integrazione
politica europea, che alimenterà nuovi interrogativi sul futuro
dell’Unione e delle sue istituzioni.
Il
governo inglese, invece, il referendum confermativo della
costituzione europea lo ha congelato, rinviandolo sine die.
Come
se non bastasse già questo, i ministri leghisti del governo italiano
di centrodestra, Roberto Maroni prima e Roberto Calderoli dopo, si
sono lasciati andare a dichiarazioni personali a favore di un
ritorno alla lira italiana, provocando un vespaio di polemiche, la
presa di distanze da parte di qualche membro del governo cui essi
appartengono e accuse di disfattismo da parte dell’opposizione di
centrosinistra.
Non
sono pochi coloro che hanno nostalgia della lira: politici,
finanzieri e operatori economici. Quando in passato l’Italia veniva
a trovarsi in gravi difficoltà sui mercati internazionali, i
problemi si risolvevano a colpi di svalutazione della nostra moneta.
Ci guadagnava soprattutto chi nel frattempo era riuscito a portare i
suoi capitali all’estero.
Il
presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, uno dei fautori
dell’introduzione dell’euro, non perde occasione per rassicurare gli
italiani, asserendo che l’Italia, grazie all’euro, che ha consentito
bassi tassi d’interesse, ha potuto evitare crisi finanziarie serie e
ha goduto di una stabilità monetaria mai conosciuta prima
dell’introduzione dell’euro.
La
storia economica c’insegna che, tra le cause dell’inflazione, c’è da
annoverare il cambio di moneta. Ed è quanto è avvenuto in Europa e
soprattutto in Italia, dove i prezzi hanno subito una repentina
corsa al rialzo.
L’Europa intera, grazie all’euro, ha trovato un’innegabile
stabilità, ma ha smarrito la via dello sviluppo.
Se è
vero che il costo della vita è rincarato in tutta l’Europa,
l’Italia, caratterizzata da ritardi nelle riforme strutturali e da
una crescita troppo lenta, è penalizzata anche dalla globalizzazione,
perché a paesi come India e Cina, che inondano i mercati mondiali
con merci a prezzi bassi, è in pratica impossibile far concorrenza.
L’Italia ha perso competitività e la stagnazione si fa sentire
pesantemente, riducendo in modo preoccupante la crescita del Pil, il
Prodotto interno lordo.
Nella
consuetudine commerciale, che si è venuta consolidando in questi
pochi anni di vita dell’euro, né desiderata e né auspicata dai
cittadini-consumatori, un euro equivale sostanzialmente alle vecchie
mille lire e i venditori di beni e servizi se ne approfittano.
Gli
esperti sostengono che è mancato un controllo sui prezzi, attraverso
l’istituzione di un’autority o di un osservatorio nazionale serio e
severo, che avrebbe dovuto coordinare gli osservatorii periferici,
preposti alla sorveglianza sugli aumenti dei prezzi dei beni di
consumo.
La
situazione è pesante per un’ampia percentuale di famiglie italiane.
Le statistiche sono preoccupanti: è cresciuta la fascia dei nuovi
poveri, il cui tenore di vita si posiziona ad un livello assai più
basso, rispetto a quando c’era la lira. E la cosa allarmante è che
tra le categorie sociali meno protette, quali pensionati a basso
reddito, disoccupati, single e separati, sono scivolati anche i
giovani, vale a dire la parte sociale più vitale che rappresenta il
futuro della nazione. Essi, non trovando un lavoro sicuro, sono
costretti ad accontentarsi di occupazioni saltuarie e mal pagate.
Se ha
difficoltà ad arrivare alla fine del mese un lavoratore che uno
stipendio lo percepisce, immaginarsi quali e quanti salti mortali è
costretto a fare chi un impiego non ce l’ha, o svolge solo un lavoro
precario!
Insomma non mancano i problemi seri da affrontare e risolvere per il
nostro Paese, e sarà dura rimettersi in carreggiata per rimanere al
passo con i paesi economicamente più avanzati.
E
chissà se basteranno il tanto elogiato ingegno italico e l’impegno
di tutti, per non scivolare verso le posizioni dei paesi più poveri
e meno fortunati!
Aneddotica irpina sulla lira
In
Irpinia, fino alla seconda metà del Novecento, circolava questo
detto: Li màncunu dicinnòve sòldi p’apparà la lira! (Gli mancano
diciannove soldi per mettere insieme una lira!).
Si
usava con riferimento a persone povere in canna, che non riuscivano
a sbarcare il lunario.
È
probabile che tale detto risalga al Medioevo, quando la moneta di
conto, la lira di denari piccoli, equivaleva a 20 soldi, e un soldo
era pari a 12 denari piccoli. Per gli affari importanti, invece, si
adoperava la lira di denari grossi, pari a 240 soldi.
Bisogna aggiungere che nel Meridione esisteva la lira tornese,
moneta metallica coniata nel Regno delle due Sicilie sino al 1860.
Equivaleva anch’essa a 20 soldi, e quindi il detto summenzionato
potrebbe anche avere avuto un’origine successiva al Medioevo.
Questo
articolo, pubblicato dalla rivista trentina UCT, è nell’archivio del
sito
www.angelosiciliano.com.
Zell,
7 giugno 2005
Angelo Siciliano
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